Parte 3 - A Giava con Honoré De Balzac

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In una di queste ore divine, sotto un cielo sen­za nuvole e sulla sommità di una roccia che si protendeva come un promontorio al centro di una ampia distesa d’acqua blu come uno zaffiro, scorsi, come le palme della speranza, quella pian­ta sublime, che sono costretto a chiamare l'albe­ro-felce.
Immaginate una delle nostre felci europee, il cui fusto, fine e flessuoso come quello di un gio­vane pioppo, abbia raggiunto i cento piedi di al­tezza! Attaccategli a due a due, salendo verso l’al­to, quelle foglie così mobili e graziose, così ampie e delicatamente lavorate, come una specie di fili­grana colorata di inimitabile fattura; fate passare ondate di luce a profusione attraverso alla molti­tudine di losanghe frastagliate.

Cercate di scorge­re, sotto a questo merletto verde, le acque brillan­ti di un lago. Poi, contrapponete alla meraviglia aerea di questo fantastico vegetale, simile al bou­quet di un fuoco d’artificio, le masse imponenti e compatte, di una foresta indiana, dalla vegetazio­ne lussureggiante e con larghe foglie... In seguito, visualizzate una strada tortuosa che abbraccia il lago come un terribile anaconda, immobile sulla sabbia, avvolto nelle sue spire. Infine, immagina­tevi in lettiga, portato da schiavi silenziosi e cer­cate di immaginare uno di quei dolci trasalimenti quando una mano dice alla vostra: - Vi amo!...

All’improvviso, ad una svolta del sentiero, appare l'albero-felce, poema vivente di un amore immortale. E il Cantico dei Cantici cantato senza voce! È l’immagine immensa di un’immensa feli­cità, un monumento costruito per questa festa del cuore, come quelli costruiti da certi popoli per le loro feste religiose. Forse che la religione non rappresenta il cuore di un popolo?...
L’albero-felce non si sarebbe offerto al mio sguardo in una circostanza che ne fa per me una creatura eccezionale se le caratteristiche della sua vegetazione mi avessero permesso di non dimenti­carlo. Mi è stato detto che è una pianta annua, uno di quei vegetali simili a un fuso che crescono e muoiono nelle Indie, con una grazia e uno sfa­villio incomparabili.

Purtroppo, le scimmie mi tennero occupato molto più a fondo della flora javanica o javanensis. Ebbi il desiderio di studiare le abitudini di questi animali che sono così vicini a noi nella catena di esseri provvisti di organi, della quale non conosciamo l’inizio né la fine. Allora, fui ini­ziato ad alcune superstizioni giavanesi.
In quest’isola, ogni specie animale ha un som­mo sacerdote, che istruisce minuziosamente le sue pecorelle. Questo papa è un vecchio malese, la cui famiglia ha ereditato tradizioni e conoscen­ze, raccolte da tempo immemorabile, sui costumi e le abitudini degli animali ai quali egli prodiga le sue cure apostoliche.
Quando ebbi manifestato il desiderio di far visita alle scimmie, la mia cara giavanese mi accompagnò dal loro pontefice, dicendomi che egli mi avrebbe rivelato dei particolari curiosi sul­la grande famiglia di cui era custode.

Ci recammo in un villaggio giavanese, appartenente a non so quale tribù, di cui la mia interlocutrice conosceva il tomogon, titolo dato nel paese al capo di una popolazione. Trovammo il padre delle scimmie seduto davanti alla porta di casa, su di una specie di canapè fatto di bambù. Per una singolare stra­nezza o in virtù di quell’inclinazione abbastanza naturale che porta gli uomini a imitare i gesti, i modi, gli accenti, l’atteggiamento, le parole dei propri amici, questo vecchio Giavanese mi sem­brò avere molta somiglianza con una scimmia. Il suo viso era triangolare e incavato, i suoi occhi, privi di ciglia e infossati, avevano una vivacità brusca e i suoi movimenti avevano l’abile sveltez­za che distingue la nobile dinastia delle scimmie.

Quando la mia bella compagna, senza scende­re dalla lettiga portata dai suoi schiavi, che cam­minavano a piedi nudi con una velocità ammire­vole preceduti da uno di loro che faceva scostare i serpenti, ebbe spiegato il mio desiderio a Toango - questo era il nome del venerabile ecclesiasti­co - egli si avvicinò a noi, ad un cenno del suo tomogon. Fra i due Indiani e mia moglie vi fu uno scambio di domande e risposte.
Il mio stupore fu grande quando lady Wallis - la mia Giavanese era vedova di un capitano ingle­se - mi tradusse la risposta del cardinale delle scimmie.
Poiché le scimmie di non so quale tribù impe­gnavano battaglia con altre scimmie che, da mesi, volevano impadronirsi di una parte della foresta la cui selvaggina e frutti appartenevano alle pri­me, gli era impossibile ricevermi quel giorno. Inoltre, per un Europeo sarebbe stato pericoloso porsi in mezzo a quella spedizione punitiva.

Ero curioso d’interrogare il vecchio Malese ed ella mi servì da tramite. Appresi che le scimmie erano divise in tribù e vivevano sotto la protezio­ne diretta di Toango. Ogni tribù era composta di un certo numero di scimmie della stessa specie ed obbediva a un capo costituzionalmente eletto. Esse sceglievano istintivamente per tomogon la più abile fra loro, come i cavalli tartari eleggeva­no a guida il cavallo più bello, più forte e più veloce. Ogni tribù possedeva una quantità di bosco limitata, ma spesso, come succede agli uomini, una tribù invadeva il territorio dell’altra. Allora la lite si risolveva con un combattimento al quale partecipavano tutte le scimmie delle due tribù, senza bisogno di leggi sulla guardia nazio­nale né di altre invenzioni riservate alle scimmie di intelligenza più sottile.

Toango non seppe dirmi in quale modo si giungesse a designare in anticipo il giorno, l’ora e il luogo del combattimento, ma questa cerimonia di guerra aveva sempre un andamento fisso, rispettato con lealtà da entrambe le parti. Le don­ne si mettevano nelle retrovie e si spostavano rapidamente, impegnate a trasportare lontano morti e feriti. Se vincevano gli assalitori, c’era la fusione delle due tribù, altrimenti gli aggressori, vinti, rientravano nei loro confini.
Toango mi fornì anche dei dettagli curiosi sul­la depravazione dei loro costumi e lady Wallis lo ascoltò con aria molto seria e senza arrossire quando egli mi mostrò con degli esempi che noi non avevamo il triste privilegio della dissolutezza. Mi confermò il fatto curioso del rapimento di una giovane Malese da parte di un orango di Giava, che l’aveva trattenuta a lungo e nutrita con la premura di un innamorato per la sua amante. I giornali inglesi hanno riportato un fatto simile avvenuto a Capo di Buona Speranza. Dopo aver fissato un appuntamento con Toango per vedere il suo popolo, tornammo a casa.

Mentre ci recavamo dal vecchio Malese, ave­vo notato una grande mandria di bisonti guarda­ti da un bambino, in una specie di prateria situa­ta al fondo di una valle coronata da boschi dispo­sti ad anfiteatro...
Quando passammo di là per la prima volta, questo bambino stava impastando della terra e dello sterco con i quali ricopriva i bisonti, che si lasciavano compiacentemente impiastricciare da lui. Io espressi la mia sorpresa nel veder fare una toeletta tanto nociva alla salute degli animali. Ma lady Wallis mi spiegò che quella camicia di mel­ma serviva a proteggere i bisonti da un tafano, le cui punture erano così violente e così velenose che non era raro vederli morire per le crisi di furore di cui erano vittima quando questi insetti si attaccavano a loro. Lo spesso strato con cui il loro piccolo guardiano li rivestiva li proteggeva completamente dall’attacco dei loro nemici...

“É impossibile descrivere, mi disse, l’amicizia di questi animali così selvaggi per il marmoc­chio... Egli può coricarsi e dormire tranquilla­mente in mezzo a loro, senza aver nulla da teme­re. Anche se si battono o diventano furiosi, nes­suno farà mai del male al bambino. Maschi, fem­mine e piccoli lo scavalcherebbero senza toccarlo e se uno di essi, inavvertitamente, lo ferisse, gli altri ucciderebbero il colpevole a colpi di corna.”
Quando ci trovammo a ripassare in quel luo­go, ebbi il piacere di vedere una scena curiosa che mi provò quanto fosse forte e autentica questa particolare affezione. I bisonti erano accorsi attorno al bambino come spinti da un unico pen­siero e si erano disposti in cerchio, formando una cintura di corna, nella quale i loro occhi di brace brillavano come torce.

Una tigre era balzata fuori dal bosco per venire a divorare il pastore. L’ani­male era lanciato come una granata ma, prima che arrivasse al luogo dove dormiva il bambino, i bisonti avevano già formato il cerchio. Uno di essi, dopo aver incornato la tigre, la scaraventò in alto a dieci piedi e tutti la calpestarono quando ricadde a terra. Questo spettacolo è uno dei più belli che io abbia mai visto... Dopo aver portato a termine l’esecuzione capitale, con il sangue freddo che li contraddistingue, i bisonti si rimise­ro tranquillamente a pascolare. Sicuro di essi, l’innocente guardiano non aveva manifestato, al suo risveglio, la più lieve paura né gettato il più piccolo grido.
Il giorno indicato da Toango, tornai da lui, con una buona provvista di riso, un pasto com­pleto e gli utensili per mangiarlo. Ci incammi­nammo verso la foresta abitata dalle scimmie e, quando arrivammo a una radura, di sicuro ben nota al vecchio Malese, egli disse una parola ai miei schiavi che si misero ad apparecchiare la tavola e ci servirono la cena.

Toango aveva con sé una specie di piccolo tam tam, per convocare i suoi concittadini e ci stordì con il suo rumore discordante e con le strane gri­da che emetteva.
Le scimmie accorsero da tutte le parti al suo­no del tamburo e della sua voce, facendo ressa come i Parigini sulla strada di Saint-Cloud nei giorni di festa. Si tennero a rispettosa distanza, ma quando Toango disse loro qualche parola dol­ce e li invitò, credo, a cenare, essi vennero attor­no a noi viritim, uno alla volta.
Su consiglio del pontefice, fingemmo di non guardarli ed essi, per gioco, fecero degli atti che avrebbero rallegrato un re costituzionale. Alcuni portarono via del riso in bocca e sotto le ascelle, altri rubarono i rozzi utensili che avevamo por­tato per loro. Non vi sono parole né pennelli per dire o dipingere i movimenti, le fisionomie, l’aria fine o spirituale, i lazzi di quella brava gen­te.

Ma ciò che mi fece, al tempo stesso, ridere e pensare fu l’aspetto delle vecchie scimmie ferite, che arrivavano appoggiandosi a delle canne e che si trascinavano come fanno i nostri invalidi sul lungosenna Bourbon. Mancava loro solo una gamba di legno o un braccio al collo per essere un’effigie della natura umana. Due poveri storpi, arrivati alla tazza del riso dandosi il braccio, era­no una contraffazione talmente perfetta dell’es­sere umano da risultare persino umiliante per l’uomo.
Quando ebbero rubato tutto, le scimmie, da quegli istrioni coscienziosi che erano, fecero del­le smorfie per ringraziarci. Alcune fecero delle capriole, come fanno i ragazzi che chiedono l’ele­mosina per strada. Altre imitarono le nostre espressioni serie o allegre.

Questi personaggi misuravano circa 70 centimetri. Gelosi dei nostri sguardi come possono esserlo i bambini che vogliono che ci si occupi di loro, per rendersi interessanti ai nostri occhi facevano l’un l’altro delle improvvisate maliziose, come quelle degli scolari. A volte era uno sgambetto o una testata data alla gamba di una vecchia scimmia o alla schiena di un giovane che stava in piedi a guar­darci. Insomma, se dovessi raccontare tutto quel­lo che succedeva, non finirei più.
Nel corso dei miei viaggi ho visto sicuramente cose più interessanti, ma niente mi ha divertito di più delle scimmie in libertà. E quando il capo andò in mezzo a loro, esse gli dimostrarono rico­noscenza facendo a gara nell’accarezzarlo. Egli parlava amichevolmente alle vecchie scimmie e loro, parola d’onore, sembravano ascoltarlo con una certa attenzione.

Quando ce ne andammo, questi graziosi ani­mali ci riaccompagnarono gentilmente. Sul confi­ne, Toango diede al loro Pantin e al loro Montrouge alcuni bicchierini di liquore, che essi bev­vero con incredibili manifestazioni di piacere. Gettarono grida di voluttà, saltellarono, fecero capriole, volarono sugli alberi, poi disparvero, per metà ubriachi. Più tardi, feci conoscenza con il prete dei coc­codrilli, ed ebbi il pericoloso onore di vedere questi orribili animali. Non conosco nulla di più odioso dei loro occhi insanguinati e di più spa­ventoso delle loro gole spalancate. Vi sono delle vaghe somiglianze fra la stupidità crudele delle loro facce e quelle del volgo in rivolta. Le loro gualdrappe embricate, il loro ventre giallo e sporco sono un ritratto dei costumi insurreziona­li... non manca loro che un berretto rosso per essere un simbolo dell’anno 1793.

Restammo sul bordo del lago nel quale questi temibili tiranni vivevano pacificamente. Il ponte­fice dei coccodrilli li chiamò per nome, aggiun­gendo qualche epiteto lusinghiero. Avevamo por­tato dei tacchini, delle galline e due quarti di bisonte da offrire a quella popolazione palustre. Il primo a venire aveva un nome che corrisponde ai nostri appellativi:
- Vieni, mio principe! Vieni, mio bel gentiluo­mo! Andiamo, mio tesoro!... mostrami il tuo muso...
All’esortazione del Malese, il gentiluomo si presentò sul bordo e tirò fuori la testa dall’acqua, dopo aver fatto ribollire il lago nelle direzioni seguite per venire da noi, prese un quarto di bisonte e si rituffò nello stagno. Successivamente, ne vidi altri quattro.

Ce n’erano stati cinque in questa palude ma un mese prima del mio arrivo, uno dei coccodrilli, il prediletto dal curato, aveva divorato un bambino ed era stato processato e condannato a morte da tre preti, dopo una lunga istruzione. Dopo averlo ucciso, si tenne agli altri quattro un discorso toccante sui doveri dei coccodrilli verso i bambini.
Lady Wallis mi propose di andare a rendere visita ai serpenti, sotto la protezione del loro arciprete, ma dopo aver visto i coccodrilli ne ave­vo abbastanza di queste escursioni.

Mi sarebbe facile descrivervi Batavia, Bantan, Surabaya; ma vi sono talmente tante stampe, litografie, lacche e paraventi, senza contare le decorazioni ingannevoli dei nostri teatri, sui qua­li sono raffigurate delle case cinesi, che la mia sarebbe una sorta di ripetizione inutile. E poi, ho sempre lanciato anatemi contro i viaggiatori che hanno scrupolosamente descritto, riportandone anche le misure, i monumenti e i siti che sono andati a visitare e, dato che noi attribuiamo abba­stanza facilmente i nostri gusti agli altri, suppon­go che voi siate d’accordo a sposare i miei odi e le mie passioni. Un libro di viaggio è una chime­ra, sul cui dorso aereo deve montare l’immagina­zione e se lo spirito del lettore non è abbastanza chiaroveggente da indovinare il paese in base a un campione, i salti e i balzi di questa particolare narrazione non gli si confanno, più di quanto non convenga alle pulci un paio di stivali.

Non vi è città europea che possa dare un’idea di Batavia. I Parigini, abituati alle loro strade sudicie e puzzolenti, ai loro muri di gesso mac­chiati, non riuscirebbero mai a concepire il lusso, l’eleganza delle case di Giava e di Calcutta, che tutti gli anni ricevono una mano di una specie di stucco bianco. Questo rivestimento, che disegna in modo netto le linee architetturali, conferisce agli edifici lo splendore dell’argento. In queste città, c’è un buon numero di abitazioni che in Europa passerebbero facilmente per dei palazzi.

Nonostante la straordinaria attività della popolazione cinese in movimento per le strade, gli onori del paese appartengono tutti agli Euro­pei, il cui prestigio morale è enorme. Per fare for­tuna, è sufficiente che si alzino, aprano gli occhi e sappiano contare. Contro di essi c’è il clima, l’amore, la Giavanese, il piacere, la pigrizia e i Cinesi stessi i quali, banditi per sempre dal loro paese e abituati all’atmosfera soffocante, si impa­droniscono del commercio e praticano il furto con audace impunità. La loro abilità trova dei simpatizzanti persino tra i giudici.
Ecco un esempio fra i tanti che dimostra la scaltrezza e la perizia in fatto di furti dei Cinesi, che li organizzano continuamente, preparandoli in precedenza.

Provate a entrare in un negozio di stoffe pre­ziose e, dopo aver mercanteggiato, acquistate un cachemire o uno scampolo di tamavas ... Se girate la testa mentre il negoziante arrotola il vostro acquisto sul banco, lo avvolge nella carta e lo lega, il pacchetto sparisce velocemente nel retro, dove viene scambiato con un altro, che contiene stoffe di prezzo e qualità molto inferiore, prepa­rate da un apprendista perennemente occupato, in un angolo, ad avvolgerle in una carta del tutto identica a quello del negoziante. Quando, incapa­ci di spiegarvi quella stupefacente metamorfosi, tornate al negozio, furiosi per essere stati vittima del Cinese, dal quale vi avevano messo in guardia, per tutta risposta il mercante si mette a ridere...
A Giava il lusso è così grande che i ricchi sono obbligati, come dappertutto del resto, a dare un valore convenzionale a cose da nulla. Il giorno della nostra partenza dalla Francia, all’imbarco, eravamo stati assaliti da una folla di mercanti che ci offrivano mille ninnoli.

Per liberarmi di un orologiaio che mi aveva abbordato come il tifo attacca un paese, gli offrii trecento franchi per diversi piccoli orologi d’oro molto piatti. Lui accettò ed io ne acquistai per mille scudi. A Giava questi orologi fecero furore, tanto che ven­detti gli ultimi per seimila franchi. Quando non me ne rimase che uno, ho vergogna a dire ciò che mi offrì la donna più bella e più ricca dell’isola. Il ricordo delle sue proposte mi riporta alle gioie e ai profumi della bella vita asiatica... Eterna dispe­razione!... Tuttavia, quando ci restituisce le im­magini della felicità perduta, la memoria fa le veci di un amico fedele, ci consola e quando ci mostra le nostre speranze realizzate, ci incoraggia ad aver fiducia nell’avvenire.

Nelle ore difficili della mia vita attuale, quando voglio regalarmi una festa grande e splendida, tor­no col pensiero ai dieci mesi passati a Giava. Mi corico sui divani di satin cinese e respiro l’aria pro­fumata del mio palazzo perduto per sempre. Cerco di persuadermi che sento ancora il passo vellutato dei miei schiavi, sfavillanti di pietre preziose. Il sole delle Indie illumina ancora i disegni dei cache-mires attraverso le stuoie di riso; i bengali volano e cantano attorno a me e i vasi dal collo lungo, pieni d’arbusti, mi avvolgono con i loro soavi pro­fumi. In questo racconto arabo, che un tempo era la realtà per me, io sono vivo e la mia bianca Gia­vanese è là, stesa al centro della sua capigliatura nera, come una cerva su di un letto di foglie...

Ah, signore! Essere immersi nei languori della voluttà soddisfatta ed aspirare i profumi che arri­vano freschi e nebulizzati alle papille nervose del­l’anima... Non fare nulla, pensare, essere il poeta di se stesso, seppellire le proprie fantasticherie completamente vergini nel più profondo del cuo­re... Credetemi, nel nostro mondo imperfetto, questa vita è ciò che più somiglia al mondo di adorabili perfezioni chiamato cielo in tutti i paesi e paradiso nella religione cattolica apostolica romana.
Ma, ahimè! Sognare in questo mondo il passa­to, poi svegliarsi e vedere un avviso mandato da quella grande prostituta che noi chiamiamo la Libertà nazionale, è una sofferenza orribile, che riporta nelPinferno della nostra civilizzazione parigina, dove si ha vergogna di un piacere, di una passione, dove il fisco mette il suo artiglio su ogni macchina e persino sul seno di una donna!... Ah! Le Indie sono il paese delle voluttà!...

Parigi, si dice, è la patria del pensiero! Questa idea con­sola. Tuttavia, se si potessero incontrare delle Gia­vanesi a Parigi, la consolazione sarebbe più com­pleta? Ahimè! Non vi sono che delle mezze Giavanesi senza chioma e poi le Parigine si dedicano ad attività di pensiero, fanno osservazioni argute, e la donna d’Oriente è una bestia sublime. Ma se volessi raccontarvi tutte le singolarità di questo paese, mi occorrerebbero più di dieci serate...
- Grazie - dissi al viaggiatore - mi avete fatto vedere Giava risparmiandomi la traversata, le avarie, le tempeste e la Giavanese.
Nei sette giorni passati ad Angoulème, il signor Grand-B……n, nel quale io avevo tro­vato un secondo tomo vivente di Sindbad il mari­naio, mi raccontò mille avventure piene di terro­re, d’amore, di pericoli, che facevano desiderare il Gange.

Mi lasciò anche, generosamente, dei curiosi documenti relativi alle Indie con poesie, drammi e immagini, che cercherò di usare bene per far dire a coloro che non conoscono il pote­re dello studio:
- Dove trova costui il tempo di viaggiare?...
Oppure:
- E pazzo!... Non credetegli, vive di illusio­ni!... Non è stato a Giava più di quanto lo siamo stati lei ed io!
In effetti, presto mi ritroverò sulla diligenza che torna a Parigi attraverso i campi della Touraine e del Poitou, che pensavo di non vedere più. Nei primi giorni del mio ritorno a Parigi fati­cherò a convincermi di non essere stato a Giava, tanto il racconto di quel viaggiatore ha colpito profondamente la mia immaginazione.

Oso appena dire che sogno le Giavanesi e che faccio attenzione alle capigliature delle Parigine, per verificare se tutte le donne con una folta chioma sono pallide.
Infine, se è possibile esser stati a Giava più realmente di quanto non lo sia stato io, sfido tut­ti i viaggiatori antichi e moderni, a essersi diver­titi più di me e a conoscere tanto bene l’isola quanto io la conosco male. Veri o falsi, questi discorsi fantastici mi hanno inoculato tutta la poesia indiana. Vi sono giorni e notti in cui lo spirito dell’Asia si risveglia, si alza e passa dentro di me. Poi, sullo sfondo di una tela immaginaria tesa non so dove, recita le scene dei fantoccini più capricciosi... che ho l’onore di augurare a voi tutti.


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