Parte 1 - A Giava con Honoré De Balzac

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Secondo il metodo descritto da M. Charles Nodier nel suo libro Storia del re dì Boemia e dei suoi sette castelli nel capitolo in cui si tratta dei diversi mezzi di trasporto usati da alcuni autori antichi e moderni.
Da molti anni, come Robinson Crusoe, ero tormentato dal desiderio violento di fare un viag­gio di lungo corso. La penisola del Gange, i suoi arcipelaghi, i paesi della Sonda e, in particolare, le poesie asiatiche, diventavano di giorno in gior­no l’oggetto tirannico dei miei desideri. È un bene o un male avere idee fisse? Non lo so: alcu­ne di esse producono sistemi politici o monu­menti letterari, altre fanno finire a Charenton. Tuttavia, in attesa di risolvere questo importante dilemma, può essere utile conoscere l’alto costo giornaliero di questo genere di idee.

La traversata delle Indie è molto costosa. Ma se, quando la si fa, è facile stabilire quanto si spende, quando non la si fa è impossibile limitar­ne il costo, che diventa rovinoso. Quante ore consumate invano!... Non parlo dei danni mate­riali causati dalla distrazione, nel caso siate un artista, uno scrittore o un uomo di pensiero: un tizzone che rotola sul tappeto, il calamaio che si rovescia, le pantofole che bruciano... No! Ma pensate a quanti i momenti preziosi sprecati, ai tesori di cuore e di pensiero follemente perduti nel passare le ore a guardare gli arabeschi incro­stati sul marmo del camino... Ora, il tempo è denaro o, meglio ancora, piacere e la quantità di cose virtualmente concepite in questo abisso dove tutto va, da dove tutto esce, che tutto divora e tutto rigenera, è incommensurabile. Sognare non è forse derubare la vostra deliziosa amante e voi stessi, che siete così felici grazie a lei?

E mentre faccio il conto di quello che ho per­so, mi accorgo che bastava un nulla - una parola in una frase, la rubrica di un giornale, il titolo di un libro, i nomi del Mysore e dell’Indostan, le foglie distese del mio tè, alcune pitture cinesi su un piattino - perché mi imbarcassi fatalmente su di un vascello fantastico che, attraverso il dedalo delle contemplazioni, mi trasportava fra le mille delizie del mio viaggio immaginario.
Fra i vari soggetti di spesa, vi sono due vasi messicani che mi ha venduto Shœlcher e che mi costano tre o quattro ore al giorno... Lasciando cadere il libro in cui cercavo qualche informazio­ne estremamente urgente, dove ho trovato le parole Baiadera, Colibrì, Sandalo, Loto, tutti ippogrifi che mi trasportano in un mondo di odori, di donne, di uccelli e di fiori, i miei occhi si fissano su una delle capricciose chimere dei vasi messicani, raffigurante un coniglio seduto in poltrona che indottrina un serpente con baffi e speroni, simbolo di tutte le sciocchezze letterarie e politiche.

Sprofondato in una meditazione infe­conda, frutto proibito agli uomini di fatica come agli uomini di lettere, comincio ad annusare i profumi indiani e mi perdo in questi grandiosi paesi, ai quali l’Inghilterra restituisce oggi le anti­che magie. Il lusso imperiale di Calcutta, i prodi­gi della Cina, l’isola di Ceylon, prediletta dai nar­ratori arabi e da Sindbad il marinaio, fanno scomparire le meraviglie di Parigi.
Alla fine, di sogno in sogno, finisco per non fare nulla, prigioniero di una specie di nostalgia per un paese sconosciuto.

Nel novembre del 1831, in una delle più belle vallate della Touraine dove ero andato a curarmi dalla mia idea fissa, in una serata incantevole nel­la quale il cielo aveva la purezza dei cieli italiani, mentre stavo tornando, allegro come un fringuel­lo, dal piccolo castello di Méré, che era apparte­nuto a Tristano, all’altezza del vecchio castello di Valesne, mi si parò dinanzi, di colpo, il fantasma del Gange!... Le acque dell’Indre si erano trasfor­mate in quelle dell’ampio fiume indiano. Scambiai un vecchio salice per un coccodrillo e l’agglome­rato di Saché per le sottili ed eleganti costruzioni asiatiche... Doveva essere un principio di pazzia, che mi faceva fraintendere in questo modo le cose belle del mio paese. Bisognava rimettere ordine.

Malgrado i rigori dell’inverno, decisi di partire subito per il mio viaggio nei possedimenti olande­si e britannici. Con un’impetuosità animale, mi recai immediatamente a Tours, salii sulla diligenza e andai a prendere le commissioni di due amici che si trovavano sulla mia strada. Facendo affida­mento sul celebre principio ‘Tutte le strade porta­no a Roma’, volevo imbarcarmi a Bordeaux.
È impossibile descrivere la felicità e la quiete che si impossessarono di me sulla vettura che ave­va come destinazione finale Chandernagor e le Laccadive. Il mio viaggio di lungo corso era ini­ziato. Sumatra, Bombay, il Gange, la Cina, Giava, Bantam mi lasciavano tranquillo ed io potevo contemplare i monotoni campi del Poitou con indescrivibile piacere. Dicevo addio alla Francia. A ogni villaggio che attraversavo, pensavo: “Quando lo rivedrò di nuovo?”

Nella mia decisione vi era stata una sorta di eccentricity, come direbbe lord Byron se fosse ancora in vita, che non mi faceva somigliare ad alcuno dei viaggiatori comuni. Partivo col vestito che avevo indosso, un paio di rasoi, sei camicie e un bagaglio leggero, come se andassi a far visita a un vicino. Non avevo rimedi contro il colera, né cianfrusaglie, né il cappello, né la tenda o il letto da campo, non avevo insomma alcuna delle mille cose inutili al viaggiatore. Capivo perfettamente che vivere qui o vivere là, la vita era uguale dap­pertutto e che, meno orpelli avevo, meglio avrei viaggiato.

Per difendere la mia doverosa miseria e con­vertirla in qualche cosa di stoico mi ricordai di quel dotto filosofo del secolo scorso che, oltre a qualche traversata marittima, aveva fatto il giro del mondo a piedi, senza spendere più di cin­quanta luigi l’anno. Federico II volle vederlo e ordinò una parata apposta per lui. Il viaggiatore, che era francese, rifiutò di salire a cavallo. Allora il re lo fece mettere al centro della piazza di Post- dam e ingiunse alle truppe di aprire i ranghi davanti a lui, come se fosse un ostacolo fisso. Federico gli domandò anche in che modo potesse essergli utile e il pellegrino chiese che gli fosse consentito di riscuotere a Berlino i soldi deposi­tati per lui a Dresda. Un atteggiamento ben più sublime di quello di Diogene che, in un’occasione simile, aveva detto ad Alessandro: ‘Scansati dal mio sole!’.  

Io mi proponevo di imitare quel francese caduto nell’oblio, del quale Federico ammirava il vasto sapere e l’aspetto economico... Non sono mai riuscito a sapere che fine abbia fat­to quel Lapeyrouse pedestre. Spesso, il suo destino, tanto ricco quanto sconosciuto, mi tiene occupato per ore intere a immaginarne il dram­ma. Quanti uomini come lui, carichi di tesori che il mondo colto non erediterà mai, sono periti su qualche spiaggia deserta!...

Per essere utile ai miei vicini dell’Osservatorio reale, avevo deciso di effettuare il viaggio con molta attenzione. Fossi riuscito anche solo a cor­reggere un errore in una famosa latitudine o in un’oscura longitudine, non avessi raccolto altro che dei miseri molluschi sconosciuti o rivelato qualche errore nelle O’ del meridiano - tutte ricerche alle quali, d’altra parte, sono compieta- mente estraneo - la mia esplorazione sarebbe sta­ta in grado di competere, per valore, con le rela­zioni di lord Macartney e di Amhesrt o con quel­la di qualsiasi lord scelto a vostro piacimento fra quelli che hanno esplorato l’Africa, l’Asia o l’Australia e che mi sono sempre sembrati dei gran ciarlatani. Mi sono proposto di dare al mio racconto un tono favolistico, in modo che possa essere letto dai bambini oltre che dagli studiosi, e che venga creduto da chi crede all’incredibile.

Fu in questa disposizione d’animo che arrivai ad Angoulême, dove decisi di fare sosta. Per prima cosa, mi recai al polverificio costruito dal defunto generale Rutty sui bordi della Charente. In questa fabbrica, concepita in stile monumentale e costata la bazzecola di un milione, il governo fabbrica una piccola quantità di polvere, in virtù della passione che abbiamo per le contraddizioni, un gusto pret­tamente francese, che si applica a tutte le cose. Per questo, se in una bottega di Parigi c’è un cartello che promette stivali e cappelli impermeabili, pote­te star sicuri che lasceranno passare l’acqua molto più degli altri. Diamo atto all’amministrazione pubblica di conformarsi bene alle incongruenze dello spirito gallico. Sotto questo aspetto, essa è eminentemente nazionale. Non abbiamo forse sempre avuto, dalle rivoluzioni alle tabelle dei commercianti, degli esiti contrari alle premesse?

Ma l’investigazione delle cantonate prese dall’amministrazione pubblica non rientra fra gli scopi del mio viaggio. Perciò la fabbrica governa­tiva ottenne la mia ammirazione e l’indomani sera, dopo una notte passata a rimettermi dalle fatiche, mi ritrovai davanti ad un allegro fuoco in compagnia di tre amici, in uno stato d’animo poco incline alla critica.
- Permettetemi di eliminare le sciocchezze di carattere personale con le quali i miei colleghi cominciano le loro relazioni. Vi invito a lanciarvi seduta stante sull’Oceano e sui mari dell’Asia e a coprire le distanze su di un brigantino dotato di buone vele per arrivare rapidamente a Giava, la mia isola prediletta. Se l’idea vi piace e le mie osservazioni vi interessano, vi sarete risparmiati le noie del viaggio.

Tuttavia, se aveste la mia tempra, sareste da compatire perché, riconosco a mio discredito, le parti di una relazione che preferisco sono quelle che capisco di meno...
Quando un viaggiatore descrive l’estremità di un canale di non so quale isola, i monsoni, le cor­renti, la profondità di un certo luogo, di cui mi preoccupo quanto delle ossa di Adamo, gli scogli, i minuti, il solcometro, gli scopamare, la droma, il déralinguage, la spedatura, le condizioni atmo­sferiche... e poi i fiori, le piante in ia apparte­nenti alle dicotiledoni o dicotomi, quelle personnées, le orobancacee, le digitate... gli animali nudibranchi con tentacoli clavipalpi, i globulicorni, i marsupiali, gli imenotteri, i bivalvi, quelli senza valve (come fanno?), gli imenopodi, i gaste­ropodi, i ditteri... spalanco gli occhi davanti alle pagine cercando di capire qualcosa in questo cataclisma di parole barbare.

Scruto l’ignoto come quelle persone che si fermano sul Pont Neuf a contemplare il fiume senza una ragione, solo perché vedono gli altri farlo, ma con la pas­sione di un chimico che, a forza di carbonizzare carichi di legna, spera di produrre diamanti...
L’opera difficile da capire ha per me un richia­mo simile a quello che si prova davanti a un abis­so. La lettura di un libro incomprensibile come l'Apocalisse - e la letteratura moderna è piena di libri apocalittici - e soprattutto delle relazioni scientifiche è, per la mia anima, come giocare una partita a barre nelle tenebre, come la lotta di Giacobbe con lo spirito del Signore. E spesso non mi è permesso di vedere lo spirito più di quanto non lo sia stato per il patriarca...
- Giava! Giava! Terra! Terra!
Eccoci tornati al nostro argomento.

Penso che per un Europeo e, soprattutto, per un poeta, non vi sia terra più deliziosa dell’isola di Giava!... Vi parlerò delle cose che si impresse­ro più profondamente nella mia memoria, seguendo i ricordi. Le cose che un viaggiatore dimentica non sono molte e, se non sarò logico dal punto di vista letterario, lo sarò secondo l’ordine delle mie impressioni. Parlerò dapprima del fatto più particolare e immediato nel quale si imbatte l’uomo che esce dal vascello.

A Parigi ciascuno vive seguendo le proprie abi­tudini: si gioca, si ama, si beve secondo la propria disposizione e, in questo modo, si è presto assali­ti dalla noia. Ma, a Giava, la morte è accanto a sé nell’aria: è nel sorriso di una donna, in un’occhia­ta, in un gesto seducente, nell’ondeggiamento di un vestito. Laggiù, se avete la pretesa di amare, di seguire la vostra inclinazione voi perite sicura­mente... Quante attrazioni perniciose nascono da questa saggezza forzata! Non date loro retta, siate avari di voi stessi e soprattutto morigerati, soste­netevi con degli stimolanti e non consumatevi in modo irragionevole. Ora, dopo aver accurata­mente trascritto questo piccolo Mané, Tekel, Pharès sulle vostre tavolette, vi trovate in presen­za delle Giavanesi. Diventati virtuosi sotto pena di morte, voi incontrate a ogni passo tutte le fasti­diose tentazioni di S. Antonio, meno il maiale.

Stabilito il principio che le donne di Giava van­no pazze per gli Europei, lasciate che vi descriva quanto sono meravigliosi gli esemplari del bel ses­so appartenenti alla famiglia giavanese. Le donne sono bianche e levigate come la carta di Bath, sen­za alcun colore né sfumatura; le loro labbra sono pallide e anche le loro orecchie e le loro narici sono chiare. Su questo strano pallore spiccano sol­tanto le belle sopracciglia nere e gli occhi scuri. La loro ricca capigliatura è prodigiosa. Scuotendo i capelli, quasi tutte si trovano coperte da un corti­naggio impenetrabile anche all’occhio più ardente, un lungo velo che scende a terra da tutti i lati. È un ornamento prezioso, di cui esse sono incredi­bilmente fiere, ed è oggetto di cure minuziose. Le piccole amanti dell’isola consumano tutto l’olio di Macassar prodotto nelle Indie. Inoltre, quando mi è stato dimostrato che in Francia non ne erano mai venuti due litri, non penso senza ridere alla fortuna di M. Naquet, che qui ne vendeva migliaia di piccole bottiglie. Se aveste passato le dita nell’abbondante e profumata capigliatura di una Giavanese, avreste il più profondo disprezzo per quell’esile chioma che le donne europee nascon­dono così facilmente sotto al berretto.

La maggior parte delle donne sono ricche e vedove. Un Europeo in buona posizione può fare un ricco matrimonio il giorno dopo il suo arrivo, all’altezza dei sogni fatti nelle prime ore delle fredde notti passate a casa... Il lusso sfrenato, la straordinaria ricercatezza, la vita così pigra e pie­na di poesia, le seduzioni delle Giavanesi induco­no a una follia mortale, soprattutto dopo una lunga traversata.
Là, tutti gli occhi hanno il languido ardore dello sguardo della gazzella e i piedi, bianchi e pieni di attrattive, riposano su cuscini di seta e di cachemire. Per questo motivo sono sempre stato tentato di chiamarli dei piedi di fata, alla manie­ra di Perrault.

Una Giavanese distinta è vestita soltanto di una blusa di mussolina chiusa al collo, che scende fino a terra ed è legata in vita da una corda di seta in tinta unita. I diamanti, le perle, gli anelli e i gioielli sono disseminati a profusione sulle schiave che la servono. L’areca e il betel anneri­scono i suoi denti, ma l’alito rimane soave.
È raro che gli Europei resistano all’incantesi­mo. Quanto a me, ci sono cascato in pieno, mal­grado lo spaventoso avvertimento scritto sulla fronte delle Giavanesi, che si sono sposate cinque o sei volte e per cinque o sei volte sono rimaste vedove. Per un artista che cosa c’è di più allettan­te della lotta con queste donne diafane e fragili, delicate e vampiresche...?

Nei periodi di malinconia e di segreta dispera­zione che mi hanno assalito fra i venti e i ventidue anni, più di una volta ho assaporato i piaceri del suicidio, senza essermi peraltro mai spinto oltre le rive del fossato della Bastiglia, nel periodo in cui non c’era neanche una goccia d’acqua. Ma il sui­cidio più delizioso che ho progettato è stato quel­lo per eccesso d’amore. Non riuscivo a immagina­re nulla di più poetico ed affascinante del dolce languore, della prostrazione totale che mi avreb­bero a poco a poco portato al nulla. Ebbene! Nel matrimonio di Giava ho trovato la realizzazione di questo sogno insensato. E l’amore in tutta la sua poesia: l’amore ardente, l’amore ingrato, l’amore senza rimorsi! Le Giavanesi non piango­no mai l’uomo che sotterrano. Semplicemente lo dimenticano, dopo averlo adorato, in vita, più di quanto amano Dio. C’è una certa somiglianza, in questo, con il meccanismo perfetto della macchi­na che stritola il suo inventore! In conclusione: altrove, voi vivete per amore; laggiù, ne morite. L’amore spensierato cerca quindi un’altra vittima e, come la natura segue il suo corso senza pren­dersi cura delle sue creature, così le Giavanesi consumano gli Europei in gran numero.

Forse dovremmo spedire a Giava dei mariti, come spediamo in Bengala dei carichi di giovani Inglesi. E strano che a Parigi non si sia considera­ta questa possibilità per i luogotenenti annoiati dal servizio, per i poeti senza gloria, per gli attori sen­za scritture e per tutti quelli destinati a Santa Pela- gia. E uno sbocco commerciale più naturale della tratta dei bianchi che si fa a ogni nuovo sorteggio e che è conosciuta come sostituzione militare. Le persone disincantate dovrebbero andare tutte a Giava, vi troverebbero una vita pittoresca come la morte di Sardanapalo. Si vive su di un rogo.

Un incidente però mi salvò da quel dolce sup­plizio. La mia Giavanese morì ed io la rimpiansi profondamente, di tutto cuore. Prima della mia partenza per il Gange, ella mi fece il regalo più amorevole che possa fare una Giavanese, dando­mi uno dei suoi capelli arrotolato su di una carta. Quando, per curiosità, faccio vedere questo capello senza fine, trovo un gran numero di increduli che lo scambiano per tutt’altra cosa. Ci sono dei giorni in cui io stesso non credo più a questo capello, ma sono giorni in cui per me i cieli sono deserti!
Uno studioso di questo paese mi ha provato, con dei validi argomenti, che il biancore delle Giavanesi è dovuto al singolare trattamento dei loro capelli. Metto questi documenti a disposizio­ne degli uomini di scienza, insieme a molti altri dettagli che non possono essere resi pubblici e che potranno gettare una luce su alcune questio­ni fisiologiche.

Tuttavia, prima di passare a un altro argomen­to, è importante controvertere un punto essenzia­le alla reputazione delle Giavanesi.
Dopo il mio ritorno ho letto alcuni frammen­ti di un viaggio fatto a Giava da un naturalista molto distinto, che ha fatto scalo solo a Surabaya, rimanendovi poco tempo. Egli ha descritto le donne di Giava come generalmente brutte. Se ha inteso parlare delle Malesi di classe media o infe­riore, sono d’accordo con lui. La Giavanese palli­da e capelluta di cui ho descritto le abitudini è la donna ricca e si sa che in tutti i paesi le differen­ze fra la popolazione femminile aristocratica e quella degli strati sociali più bassi sono enormi.

Questo autore ha insistito sulla propensione alla gelosia che caratterizza il bel sesso di Giava. Egli attribuisce la morte improvvisa degli Europei alla vendetta delle Giavanesi, alle quali riconosce l’arte di preparare beveraggi velenosi con grande abilità. Benché le donne di quest’isola non abbiano bisogno di servirsi di questo mezzo per uccidere i loro amanti o i loro mariti, che esse divorano in fretta, credo volentieri alla loro gelosia e ai suoi effetti sinistri. Là dove l’amore è così micidiale, ogni donna deve essere avara del suo tesoro.

Riconosco che la capacità di dissimulazione e di sorda vendetta delle Giavanesi non hanno paragoni in Europa. Forse non mi sono accorto di questo lato del loro carattere e le ho viste miglio­ri di quello che sono, ma io le trovo comunque belle e poetiche, anche se dominate da queste due passioni. Esse vogliono tenervi così interamente in loro possesso che non vi perdonano neanche uno sguardo gettato alle loro rivali. Ma se i piace­ri sono così pericolosi e venduti a caro prezzo, bisogna riconoscere che essi sono immensi. Al pari della Poesia, della Pittura e della Scienza, le Giavanesi consumano gli studiosi, i pittori e i poe­ti, gelose e implacabili come il genio. Il loro amo­re è un fuoco che brucia realmente.

Il giorno dopo il mio matrimonio, per un caso poetico che aumentò il delirio del più soave dei miei risvegli, ascoltai per la prima volta il canto del bengali.
Quand’anche l’isola di Giava non avesse più l’incantevole manto dell’eterna primavera, i suoi bei paesaggi, le foreste vergini, la sua città in mo­vimento dove formicolano tutte le nazionalità e dove il lusso delle Indie si sposa con il lusso del­l’Europa, quand’anche essa fosse privata delle sue voluttuose uri e le restasse solo il bengali, biso­gnerebbe continuare a recarvisi in pellegrinaggio per imparare fino a che punto la natura sia supe­riore all’uomo in materia di scienza musicale.

Non saprei esprimere tutte le sensazioni tra­smesse dal bengali di Giava. Il suo canto coinvol­gente è come una ricca memoria, che sottintende tutte le poesie possibili. In certi momenti, la sua voce evoca le fresche e deliziose impressioni del primo amore; in altri, essa parla dell’infanzia e della patria, suscitando sogni fantastici e trascen­denti malinconie. Poi, di colpo, produce con gra­zia e senza sforzo effetti a lungo cercati e supera difficoltà che sono il vanto dei virtuosi. Le sue corde delicate hanno la rapidità periata delle note del piano e il suono, così simpatico all’anima, della physarmonica. È il cantore delle passioni vere.

Ascoltare un bengali quando la vostra anima soltanto ha conservato qualche potere presso una Giavanese soddisfatta è una di quelle gioie asiati­che di cui nulla può dare un’idea. L’uccello rinnovella i vostri pensieri, canta le mute voluttà dei vostri sguardi e, con la grazia afrodisiaca dei suoi accenti, esprime le delizie che per voi sono già svanite, dando loro una seconda vita. Infine, egli parla al cuore e lo commuove, quando i sensi ormai tacciono. Forse il bengali è un’anima felice.
La natura prodiga lo ha rivestito d’oro, di porpora e di smeraldi, trasformandolo in un dia­mante aereo, in una pietra preziosa che vola attorno a voi. Questo povero piccolo fiore dell’aria, che perde la sua voce al di là delle Azzorre, questo uccello divino vive succhiando le rose e nutrendosi del loro profumo. È innamorato e fedele.

Fra le rose ve ne è una, del Bengala, della quale egli è così perdutamente innamorato da non poter esistere che nel suo calice. Quando ne vede una, spiega le ali e vi si adagia, si bagna, si rotola, la bacia, la succhia, la calpesta e le canta i suoi più dolci gorgheggi. Sembra trovarvi l’altra sua vita, quella a cui tutti aspiriamo. Nessuna passione umana è paragonabile a quella del ben­gali per la sua rosa prediletta.
Purtroppo, la mia ignoranza in fatto di storia naturale è tale che devo limitarmi a semplici osservazioni su queste meraviglie. Non posso dir­vi quante remiganti ha questo uccello poeta, né in quale punto del becco siano i fori delle sue narici né se le sue mandibole chiudono bene né in quali condizioni sono i suoi tarsi. D’altra parte, questo bengali è il mio!... Io solo l’ho ascoltato e compreso!... Questo uccello, o meglio, il suo canto, è un segreto fra la mia anima e il cielo, come il lirismo malinconico di certe note di Weber resta un mistero fra due amanti.

Sappiate che io appartengo alla categoria dei viaggiatori egoisti, una specie che Sterne ha dimenticato di citare nella sua ampia classifica­zione dei viaggiatori. Come tale, non mi ero pre­fisso di studiare la natura del terreno né di porta­re a casa una flora javanica. Ho visto tutto da appassionato e da poeta. È possibile che io abbia giudicato le Giavanesi come quell’inglese che aveva giudicato le donne di Blois da un solo esemplare. Tuttavia, se mento, lo faccio in buona fede, la migliore del mondo.


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