Eccitanti moderni - Acquavite - Caffè - A Giava con Honoré De Balzac

Vai ai contenuti



L’uva ha rivelato per prima le leggi della fer­mentazione, l’azione che si compie fra i suoi ele­menti per influenza atmosferica e dalla quale deriva una combinazione contenente l’alcool ottenuto con la distillazione. In seguito, la chimi­ca l’ha scoperta in molti altri prodotti botanici. Il vino, prodotto immediato di questa trasformazio­ne, è il più antico degli eccitanti: onore al merito, gli spetta il primo posto. D’altra parte il suo alcol è quello che oggi uccide più persone. Siamo spa­ventati dal colera, ma l’acquavite è un flagello ben peggiore!
 
Qual è il bighellone che, fra le due e le cinque del mattino, non ha osservato nei dintorni dei mercati generali di Parigi la tappezzeria umana formata da uomini e donne clienti abituali dei distillatori, le cui ignobili botteghe sono ben lun­gi dai palazzi costruiti a Londra per i consumato­ri che vengono a consumarsi, ma i cui risultati sono gli stessi? Tappezzeria è la parola giusta. Gli stracci e i visi sono talmente in armonia che non si sa dove finisce lo straccio e dove comincia la carne, dove è il berretto e dove è il naso. Spesso il viso è più sporco del brandello di biancheria che si scorge guardando attentamente questi per­sonaggi orrendi, rattrappiti, incavati, deperiti, incanutiti, illividiti, resi folli dall’acquavite. Noi dobbiamo a questi uomini un elemento germina­le ignobile che ha perso forza o che produce gli spaventosi monelli di Parigi. Gli esseri gracili che costituiscono la popolazione operaia hanno origi­ne dai banconi di queste rivendite. Anche la mag­gior parte delle ragazze di strada di Parigi sono decimate dall’abuso di liquori forti.
 
Come osservatore, non sarebbe degno di me ignorare gli effetti dell’ubriachezza. È mio dovere studiare i piaceri che seducono il popolo e che hanno sedotto, diciamolo, Byron, Sheridan e tutti quanti. In qualità di bevitore d’acqua, la cosa mi riesce difficile. Ho una lunga consuetudi­ne con il caffè, ma il vino non ha la minima pre­sa su di me, indipendentemente dalla quantità che la mia capacità gastrica mi permette di assor­bire. Sono un commensale costoso. Uno dei miei amici, che conosce questo fatto, ebbe il desiderio di vincere questa verginità. Inoltre, non ho nean­che mai fumato. La sua vittoria doveva riguarda­re queste due primizie, da offrire diis ignotis. Così, un giorno del 1822, al Teatro degli Italiani, nella speranza di farmi dimenticare la musica di Rossini, la Cinti, Levasseur, Bordogni, la Pasta, il mio amico mi sfidò su un divano che egli aveva adocchiato fin dal dessert e dove fu lui a finire disteso.

Diciassette bottiglie vuote assistettero alla sua disfatta. Egli mi aveva anche obbligato a fumare due sigari e il tabacco ebbe un effetto del quale mi accorsi scendendo le scale. I gradini mi sembravano di materia molle. Tuttavia, salii gloriosamente in vettura, tenendomi ragionevolmen­te diritto, grave, poco disposto a parlare. Là den­tro ebbi l’impressione di essere in una fornace, allora abbassai il vetro e l’aria finì per stendermi, secondo l’espressione tecnica degli ubriachi. Per­cepivo un grande vuoto nell’ambiente intorno. I gradini dello scalone dei Bouffons mi sembraro­no ancora più molli degli altri, ma presi posto alla balconata senza alcuna disavventura. Non avrei osato affermare di essere a Parigi, in mezzo a una società affascinante di cui non distinguevo né i vestiti né le facce. Il mio spirito era brillo. Quello che sentivo dell’ouverture de La Gazza equivaleva ai suoni fantastici che scendono dal cielo nell’orecchio di una donna in estasi.

Le fra­si musicali mi giungevano attraverso nubi lumi­nose, spogliate delle cose imperfette che gli uo­mini mettono nelle loro opere e piene di ciò che il sentimento dell’artista vi infonde di divino. L’orchestra mi appariva come un grande strumen­to dove si svolgeva un lavoro indefinibile, di cui non afferravo né il movimento né il meccanismo, non vedendo che molto confusamente i manici dei bassi, gli archetti in movimento, le curve dorate dei tromboni, i clarinetti, le luci ma nes­sun uomo. Solamente una o due teste incipriate, immobili, e due visi gonfi, contratti in una smor­fia, che mi inquietavano. Dormivo a metà.
“Questo signore sa di vino” disse a bassa voce una signora il cui cappello sfiorava spesso la mia guancia o che, a mia insaputa, era sfiorato dalla mia guancia.
Ammetto di essere rimasto mortificato.
“No, signora - le risposi - io so di musica.”

Uscii, tenendomi perfettamente diritto, calmo e freddo come un uomo che, non essendo apprezzato, si ritira facendo nascere nei suoi cri­tici il sospetto di aver molestato un genio supe­riore. Per provare a quella signora che ero inca­pace di bere oltre misura, e che il mio odore doveva essere un incidente del tutto estraneo alle mie abitudini, pensai di recarmi nel palco della Signora duchessa di... di cui scorsi la bella testa così singolarmente incorniciata di piume e di merletti. Fui irresistibilmente attratto verso di lei dal desiderio di verificare se quell’incredibile acconciatura fosse vera, o dovuta all’ottica parti­colare di cui ero dotato quella sera.
Quando sarò là, pensavo, fra quella dama così elegante e la sua amica così piena di smancerie ed esageratamente pudibonda, nessuno mi sospet­terà di essere ubriaco, e si dirà invece che devo essere un uomo importante.
 
Stavo ancora errando per gli interminabili corridoi del Théàtre-Italien, senza aver trovato la dannata porta di quel palco, quando la folla, uscendo dopo lo spettacolo, mi schiacciò contro un muro. Quella sera fu certamente una delle più poetiche della mia vita. In nessun’altra occasione avevo visto così tante piume, merletti, belle don-ne, piccole lenti ovali attraverso le quali i curiosi e gli amanti esaminano il contenuto di un palco. Mai ho impiegato tanta energia né mostrato tan­to carattere, potrei perfino dire testardaggine, se non fosse per il rispetto che si deve a se stessi. La tenacia del re Guglielmo d’Olanda nella que­stione belga non è nulla in confronto alla mia perseveranza nell’alzarmi sulla punta dei piedi e conservare un amabile sorriso. Tuttavia, ho avuto degli accessi di collera, piangevo persino.

Questa debolezza mi pone al di sotto del re d’Olanda Ero tormentato da idee spaventose, pensando a tutto ciò che quella signora aveva il diritto di pensare di me, se non mi fossi rifugiato fra la duchessa e la sua amica; ma mi consolavo disprezzando l’intero genere umano. Eppure ave­vo torto, c’era una bella compagnia ai Bouffons quella sera. Tutti furono pieni di attenzioni per me e si spostarono per farmi passare. Infine, una donna molto graziosa mi diede il braccio per uscire. Dovetti questa gentilezza all’alta conside­razione che mi testimoniò Rossini, il quale mi disse qualche parola lusinghiera che non ricordo, ma che doveva essere molto spiritosa: la sua con­versazione è all’altezza della sua musica. Quella donna era una duchessa, credo, o forse una ma­schera. Il mio ricordo è così confuso che credo più alla maschera che alla duchessa. Tuttavia, ella aveva delle piume e dei merletti!

Ancora piume e ancora merletti! In breve, mi trovai nella mia vet­tura per la ragione superlativa che il mio cocchie­re, che dimostrava di avere con me un’affinità che mi rattristava, stava dormendo anche lui, da solo, sulla piazza degli Italiani. Pioveva a dirotto, ma non ricordo di aver ricevuto una sola goccia di pioggia. Per la prima volta in vita mia, prova­vo uno dei piaceri più vivi, più fantastici al mon­do, un’estasi indescrivibile, le delizie che si pro­vano ad attraversare Parigi alle undici e mezzo di sera, trasportato rapidamente in un riverbero di luci, vedendo scorrere miriadi di negozi, lampio­ni, insegne, visi, gruppi di donne sotto gli ombrelli, angoli di strada fantasticamente illumi­nati, piazze nere, osservando, attraverso i fili di pioggia, mille cose che si crede erroneamente di aver percepito, da qualche parte, in pieno giorno. E ancora piume! E ancora merletti! Persino den­tro alle pasticcerie!
 
Da allora sono riuscito a capire molto bene il piacere dell’ubriachezza, che getta un velo sulla vita reale, spegne la consapevolezza delle sventu­re e dei dispiaceri e permette di deporre il fardel­lo del pensiero. Si comprende allora come i gran­di geni abbiano potuto servirsene e perché il popolo vi si dedichi. Anziché attivare il cervello, il vino lo inebetisce. Lungi dal provocare le rea­zioni dello stomaco verso le forze cerebrali, una bottiglia di vino offusca le papille, ostruisce i condotti e impedisce al gusto di funzionare.
Per il bevitore, diventa impossibile distinguere la finez­za dei liquidi serviti. L’alcol assorbito passa in parte nel sangue. Perciò iscrivete nella vostra memoria questo assioma:


 
A causa della frequenza del suo avvelenamen­to, l’alcolista finisce per cambiare la natura del proprio sangue e per alterarne il movimento, togliendogli i suoi principi, snaturandolo, e creando dentro di sé un problema così grande che la maggior parte degli ubriachi perde le facoltà generative o le danneggia a tal punto da mettere al mondo degli idrocefali. Il giorno dopo, ma spesso anche alla fine dell’orgia, il bevi­tore prova una sete divorante, evidentemente prodotta dall’utilizzo dei succhi gastrici e degli elementi della salivazione occupati al loro centro. Questo serve a dimostrare la giustezza delle nostre conclusioni.


 
Su questa materia, Brillat-Savarin è lungi dal­l’essere esauriente. Io, che faccio uso di caffè, posso osservarne gli effetti su larga scala e aggiungere qualche cosa a quello che egli dice. Il caffè è un torrefattore interiore. Molte persone gli accordano il potere di favorire l’ingegno, ma tutti hanno verificato che le persone noiose, dopo averne bevuto, annoiano ancora di più. Inoltre, a Parigi i droghieri sono aperti fino a mezzanotte, ma non per questo certi autori diventano più brillanti.
Brillat-Savarin ha anche osservato che il caffè mette in movimento il sangue e ne fa scaturire gli spiriti motori; l’eccitazione affretta la digestione, scaccia il sonno e permette di esercitare un po’ più a lungo le facoltà cerebrali.
Mi permetto di rettificare questo articolo di Brillat-Savarin valendomi dell’esperienza perso­nale e delle osservazioni di qualche grande intel­letto.

Il caffè agisce sul diaframma e sui plessi dello stomaco, da dove giunge al cervello con impor­tanti irradiazioni che sfuggono a ogni analisi.
Però, si può presumere che sia il fluido nervoso il conduttore dell’elettricità che questa sostanza trova dentro di noi e che mette in azione, libe­randola. Il suo potere non è costante né assoluto. Rossini ha provato su se stesso gli effetti che io avevo già osservato su di me.
“Il caffè - mi ha detto - è un affare di quindi­ci o venti giorni, il tempo utile per fare un’ope­ra.”
Il fatto è vero. Ma il tempo per godere dei benefici del caffè si può allungare. Questa scienza è troppo necessaria a molte persone per non descrivere il modo di ottenerne i frutti preziosi.
Voi, illustri candele umane, che vi consumate con la testa, avvicinatevi e ascoltate il vangelo della veglia e del lavoro intellettuale!

1° Il caffè polverizzato alla turca ha più sapo­re del caffè macinato.
In molte cose meccaniche riguardanti lo sfrut­tamento dei piaceri, gli Orientali sono molto superiori agli Europei. Il loro genio, osservatore alla maniera dei rospi che restano per anni nei loro buchi con gli occhi dorati aperti come due soli sulla natura, ha permesso loro di conoscere attraverso i fatti quello che la scienza ha dimo­strato con l’analisi. L’elemento deleterio del caffè è il tannino, una sostanza maligna che i chimici non hanno ancora studiato abbastanza. Quando le membrane dello stomaco sono conciate o quando l’azione del tannino contenuto nel caffè le ha inebetite con un uso troppo frequente, esse si negano alle contrazioni violente volute da chi lavora. Se l’appassionato continua dà origine a disordini gravi.
A Londra c’è un uomo che l’uso smodato del caffè ha reso deforme come quei vecchi gottosi dai movimenti legati. A Parigi ho conosciuto un incisore che ha impiegato cinque anni per guarire dallo stato in cui lo aveva ridot­to il suo amore per il caffè.

Da ultimo, un artista, Chevanard, che entrava in un caffè a tutte le ore come un operaio entra in un bistrot, è morto bru­ciato. Come in tutte le passioni, gli innamorati passano da un grado all’altro e, come Nicolet, vanno da più forte a più forte, fino a giungere all’abuso. Con la polverizzazione, il caffè viene ridotto in molecole di forma bizzarra, che trat­tengono il tannino e rilasciano soltanto l’aroma. Ecco perché gli Italiani, i Veneziani, i Greci e i Turchi ppssono bere in continuazione e senza pericolo questa bevanda, che i Francesi chiamano sprezzantemente cafiot. Anche Voltaire beveva questo caffè.
Ricordate dunque che il caffè contiene questi due elementi: una sostanza estrattiva, che si scioglie rapidamente nell’acqua calda o fredda e che trasmette l’aroma, e il tannino, che resiste più a lungo all’acqua ed abbandona lentamente e con difficoltà il tessuto areolare. Da qui deriva l’assio­ma:
 


2° Immaginiamo che il caffè sia preparato con l’immortale caffettiera alla de Belloy, non du Belloy (l’uomo alle cui riflessioni noi dobbiamo que­sto metodo, che era cugino del cardinale e, come lui, appartenente all’antica e illustre famiglia dei marchesi de Belloy), esso ha maggiori virtù mediante l’infusione a freddo piuttosto che in acqua bollente. In questo modo si riesce anche a graduarne gli effetti.
Macinando il caffè, si libera allo stesso tempo l’aroma e il tannino, si blandisce il gusto e si sti­molano i plessi, che reagiscono sulle mille capsu­le del cervello.
Così, ecco i due gradi del caffè: polverizzato alla turca e macinato.

3° La forza del caffè dipende dalla dose messa nel recipiente superiore, dalla pigiatura più o meno energica e dalla quantità più o meno abbondante d’acqua. Questo costituisce il terzo modo di preparare il caffè.
Per una durata di una o due settimane al mas­simo, si può ottenere l’eccitazione prima con una, poi con due tazze di caffè alla turca, graduando­ne la quantità e lasciandolo in infusione in acqua bollente.
La settimana successiva si ottiene ancora la stessa misura di forza cerebrale con l’infusione a freddo di caffè macinato, con la pigiatura della polvere e la diminuzione dell’acqua.

Quando si è giunti alla massima pigiatura pos­sibile e alla più piccola quantità d’acqua, si deve raddoppiare la dose prendendone due tazze. Alcuni temperamenti vigorosi arrivano anche a tre tazze. Così, si può ancora andare avanti qual­che giorno in più.
Ho scoperto un metodo orribile e crudele, che consiglio solo agli uomini di straordinario vigore, dai capelli neri e duri, dalla pelle mista color ocra e vermiglio, dalle mani quadrate e dal­le gambe a forma di balaustri come quelli di pla­ce Louis XV Si tratta di bere a digiuno del caffè macinato, pigiato, freddo e anidro (parola chimi­ca che vuol dire con poca acqua o privo di acqua). Questo caffè scende nello stomaco che, come sapete da Brillat-Savarin è un sacco con l’interno vellutato e tappezzato di papille e suc­chiatoi, non vi trova nulla, attacca la fodera deli­cata e voluttuosa, diventa una sorta di alimento che vuole i suoi succhi, li comprime, li sollecita come una pitonessa chiama il suo dio, malmena le graziose pareti come un carrettiere che brutalizza dei cavalli giovani. I plessi si infiammano, ardono e inviano al cervello le loro scintille.

Da questo momento tutto si agita: le idee si mettono in moto come i battaglioni della grande armata sul terreno di battaglia e il combattimento ha luogo. I ricordi arrivano a passo di carica con le insegne spiegate, la cavalleria leggera delle com­parazioni si schiera con un magnifico galoppo, l’artiglieria della logica accorre con il suo treno e i suoi cartocci, le battute di spirito arrivano in ordine sparso, le figure prendono forma e la car­ta si copre di inchiostro. E come la battaglia comincia con la polvere nera, la veglia comincia e finisce con dei torrenti di acqua nera. Ho con­sigliato questo modo di assumere la bevanda a uno dei miei amici, che voleva assolutamente fare un lavoro promesso per il giorno dopo. Si credette avvelenato, tornò a coricarsi e tenne il letto come una donna sposata. Egli è alto, bion­do, magro, ha i capelli radi e uno stomaco di car­tapesta. C’era stata, da parte mia, una mancanza di osservazione.

Se, una volta arrivati al caffè preso a digiuno con le emulsioni superlative, si decidesse di con­tinuare, si cadrebbe vittima di sudori orribili, debolezze nervose, sonnolenze. Non so che cosa succederebbe dopo, la saggia natura mi ha consi­gliato di astenermi dal proseguire, dato che non sono condannato a una morte immediata. Allora, bisogna mettersi a dieta e seguire un regime di preparati lattei, pollo e carni bianche. Infine, bisogna allentare le corde dell’arpa e riprendere la vita rilassata, vagabonda, sciocca e crittogami­ca dei borghesi in pensione.

Il caffè preso a digiuno nelle condizioni descritte produce una sorta di vivacità nervosa che assomiglia a quella della collera: il tono della voce si alza, i gesti esprimono un’impazienza nociva, si vuole che tutto segua la rapidità delle idee, si è irragionevoli, rabbiosi per un nonnulla, si arriva insomma al carattere instabile dei poeti, tanto criticato dai droghieri, si attribuisce agli altri la lucidità di cui si gode. Un uomo accorto deve allora evitare di mostrarsi in pubblico e di lasciarsi avvicinare. Ho scoperto per caso questo stato singolare nel quale avevo perso l’esaltazione che mi ero procurato, senza che ciò fosse dovuto al lavoro.

Alcuni amici, presso i quali mi trovavo in campagna, mi vedevano discutere astiosamen­te, a lungo e in malafede su inezie. Il giorno dopo riconoscevo i miei torti e ne cercavo insieme a loro la causa. I miei amici erano degli scienziati di prim’ordine e trovammo subito il motivo: il caffè voleva una preda.
Queste osservazioni sono valide per tutti, gli unici cambiamenti sono quelli risultanti dalle dif­ferenti idiosincrasie e concordano con le espe­rienze di molti esperti, fra i quali c’è l’illustre Rossini, un eroe degno di Brillat-Savarin e uno degli uomini che più hanno studiato le leggi del gusto.
 
OSSERVAZIONE - In alcune nature deboli, il caffè procura al cervello una congestione non pericolosa. Queste persone, anziché sentirsi atti­vate, provano sonnolenza e dicono che il caffè le fa dormire. Sono persone che forse hanno gambe da cervo e stomaci da struzzo, ma sono mal attrezzate per il lavoro di pensiero. Due giovani viaggiatori, i signori Combes e Tamisier, hanno trovato che gli Abissini sono generalmente impo­tenti. I due non esitano ad attribuire la causa di questa disgrazia all’abuso di caffè, che gli Abissini spingono fino all’ultimo grado. Se questo libro comparirà in Inghilterra, prego il governo inglese di risolvere questo grave problema sul primo condannato che avrà sottomano, se non si tratta di una donna o di un vecchio.

Anche il tè contiene del tannino, ma con virtù narcotiche, e non si rivolge al cervello. Agisce sul plesso e sull’intestino, che assorbono più specifificatamente e più rapidamente le sostanze narcoti­che. Fino a oggi c’è un unico modo tassativo di prepararlo. Non so fino a che punto la quantità d’acqua che i bevitori di tè introducono nello sto­maco incida sull’effetto ottenuto. Se l’esperienza inglese è esemplare, il risultato sarebbe la morale inglese, le signorine dal colorito smorto, le ipo­crisie e maldicenze di quel popolo. Quello che è certo è che esso guasta la donna tanto nel morale quanto nel fisico.

Nei paesi in cui le donne bevo­no il tè, l’amore è compromesso sin dall’inizio. Esse sono pallide, malaticce, ciarliere, insoppor­tabili e saccenti. In alcune costituzioni robuste, il tè forte, preso a grandi dosi procura un’irritazio­ne che versa tesori di malinconia, dà origine a sogni meno potenti di quelli dell’oppio, con una fantasmagoria che si svolge in un’atmosfera grigia e vaporosa e idee dolci quanto le donne bionde. Riduce in uno stato che non è il sonno di piom­bo che caratterizza gli organismi affaticati, ma una sonnolenza indicibile, che ricorda quella del mattino, piena di fantasticherie. L’eccesso di caffè, come quello di tè, produce una grande sec­chezza della pelle, che diviene bruciante. Il caffè causa spesso sudore e sete violenta e in chi arriva ad abusarne la salivazione è spessa e quasi sop­pressa.
 


 
 
Torna ai contenuti